Questa è l’omelia pronunciata dal Vescovo Gianni Sacchi al pontificale solenne per la festa del Patrono Sant’Evasio.

 

Carissimi fratelli e sorelle, con grande gioia siamo qui per il nostro appuntamento annuale in occasione della festa del Santo Patrono Evasio.

La città di Casale e l’intera diocesi oggi onorano il Patrono, invocando la sua intercessione.

Saluto tutti i presenti, i sacerdoti e diaconi,

i parroci della città, i parrocchiani del duomo con i ragazzi dell’Oratorio, i Moderatori, il Capitolo della Cattedrale, le distinte    autorità civili e militari, con il Signor Sindaco della nostra città e i sindaci e i parrocchiani delle Unità Pastorali: “Santa Lucia, Madonna di Crea e Santa Gianna Beretta Molla”, l’Arciconfraternita di Sant’Evasio,

i Cavalieri e le Dame del Santo sepolcro della nostra provincia di Alessandria, tutte le Associazioni del territorio.

Un benvenuto particolarissimo al nostro vescovo emerito Alceste che, dopo l’interruzione del periodo della pandemia, oggi è nuovamente con noi a celebrare il patrono.

Grazie della tua presenza, segno di una paternità spirituale che sempre continua nei nostri confronti.

Un saluto al vescovo Luciano, emerito di Mondovì che è di casa per la sua residenza a Villanova e per i suoi molteplici contributi biblici alla nostra diocesi.

Anche quest’anno, nella cappella di Sant’Evasio il Sindaco di Casale e i 22 sindaci dei paesi interessati alla mia visita pastorale del 2023, hanno portato all’altare una lampada per affidare il loro Comune alla protezione del patrono della diocesi e della nostra città.

È un gesto significativo, una lampada accesa a significare che quella luce, quella fiammella che rappresenta la nostra fede e la nostra preghiera, è sì una piccola fiammella, ma c’è. Ci siamo!

E alla luce di quella fede vogliamo camminare.

Nell’iconografia classica Sant’Evasio è rappresentato con il pastorale nell’atto di abbracciare e sostenere la città.

Noi siamo cari al patrono Evasio.

Ci stringe a sé e ci porta a Dio.

In queste terre ha annunciato il Vangelo, in questa cattedrale è venerato e qui veniamo a chiedere protezione e aiuto per tutti.

Ha dato la vita per essere fedele alla dottrina autentica e non ha esitato a vivere le parole di Gesù che proponeva, a chi voleva seguirlo di prendere la croce; cioè assumere fino in fondo le scelte radicali dell’amore anche con il dono della vita.

Abbiamo iniziato un autunno difficile con una pandemia non finita, la guerra che continua e che ha generato una crisi energetica che si ripercuote sul lavoro, sulle famiglie e su tante realtà sociali.

Non rassegniamoci, non concentriamoci solo sugli aspetti negativi, guardiamo al bene intorno a noi e alla solidarietà che abbiamo messo in atto nei due anni di pandemia. Quanto bene si è originato.

Insieme, Chiesa e Istituzioni, cerchiamo soluzioni per risollevare tante situazioni difficili del nostro territorio pensando anche alle nuove generazioni.

È vero che siamo entrati in una crisi a tutti i livelli, anche spirituale, con una comunità cristiana che sembra aver perso la sua identità, ma questo non deve scoraggiarci.

Questo è il momento per rinnovare una fede profonda, consapevoli che, come ci ha detto l’apostolo Paolo, noi siamo nelle mani di Dio e niente e nessuno ci può strappare da Lui. (Rm 8,35-39)

Il vescovo Erio Castellucci, che abbiamo ospitato per una serata a settembre, nel suo libro “Benedetta crisi” scrive   sull’irrilevanza attuale della Chiesa segnalata dai sociologi:

“Sì in un certo senso è così: ma la responsabilità è riconducibile – mi sia permesso – a Gesù, che non ha illustrato il Regno di Dio con immagini rilevanti, come un esercito o un castello, ma con le cosette più trascurabili e meno contabilizzate dell’epoca. Del resto, subito dopo le Beatitudini, aveva privato i discepoli dei “Sogni di gloria”, dicendo loro che dovevano essere come il sale e come la luce, scegliendo così due elementi che non attirano a sé stessi, ma compiono la loro missione dando risalto ad altro, e quasi scomparendo: il sale deve sciogliersi nel cibo e la luce deve dare rilievo alle cose, se vogliono svolgere la loro funzione. Ma spesso i suoi discepoli – noi compresi – impiegano energie a costruire saliere e lampadari e a lucidarli, conservarli, abbellirli, piuttosto che impegnarsi a essere Sale e Luce. Papa Benedetto XVI, cominciando addirittura più di mezzo secolo fa, da semplice teologo e vescovo, prospettava la Chiesa del futuro fatta non di granitiche strutture, ma di minoranze. E da pontefice avrebbe precisato che i cristiani sono chiamati a formare “Minoranze creative”: normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono le cose del passato, ma sono una realtà molto viva e attuale”.

Come Comunità cristiana, alla luce anche del cammino sinodale che continua con il mandato alla diocesi che ho pubblicato in questi giorni, dobbiamo essere Chiesa, minoranza creativa, capace di dare speranza, quella speranza che, è in noi e di cui siamo chiamati a rendere ragione attraverso un cammino di vera formazione spirituale.

Ma dobbiamo anche, come Chiesa in uscita, saper cogliere le tante speranze che sono nel cuore degli uomini, che magari sono mutile, superficiali e periferiche.

Segmenti, frammenti niente di più.

Ma non sono da disprezzare.

Gesù non ha disprezzato i desideri che avessero qualche carattere di autenticità umana.

Ha guarito, ha sfamato, ha rallegrato con il vino nuovo.

Ha dato ascolto alle attese anche umili della gente che incontrava.

La speranza cristiana incrocia le speranze umane, le assume, le valorizza, le guarda con grande simpatia.

È una speranza, la nostra, non esclusiva, ma inclusiva.

C’è un racconto dei Chassidim (movimento spirituale ebraico Est Europeo del XVIII sec.) che parla di ebrei i quali, dai loro miserabili villaggi dell’Europa orientale, vanno incontro al Messia finalmente venuto, avanzando a fatica nella neve.

Quando il Messia li vede arrivare, domanda a chi li guida che cosa siano quegli strani oggetti che portano a tracolla.

La risposta non si fa attendere: sono fiasche di acquavite con cui si sono sostenuti nei terribili inverni del loro esilio.

Allora il Messia li fa entrare nel suo regno con quelle fiasche di acquavite al collo.

È un racconto stupendo perché molto umano e molto divino.

Molti camminano verso il regno di Dio sostenendosi anche con speranze parziali, speranze povere, di gente povera in tutti i sensi, ma anche queste un giorno entreranno nella pienezza e nell’appagamento totale.

Spetta a noi cristiani parlare di questo mondo di pienezza, di questa vita nuova e inimmaginabile che nel Vangelo è chiamata “Vita eterna”.

Soprattutto parlarne come gente che ci crede.

Essere capaci di gettare la propria Speranza oltre l’orizzonte abituale, oltre il campo della propria esperienza, oltre le speranze limitate e verificabili.

Si tratta di accogliere e di vivere quello che l’apostolo Paolo propone come ragione ultima della nostra fiducia:

“Se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore, sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore”. (Rm 14,8)

Il nostro futuro è nelle mani di Dio.

Lui è un Dio fedele e in questa fedeltà noi vogliamo inserirci e rimanere.

Vorrei ricordare quello che diceva il Piccolo Principe nel racconto di Saint-Exupery:

“Io amo il deserto perché da qualche parte nasconde un pozzo”.

C’è il deserto della vita, questo periodo vissuto come un deserto, ma da qualche parte c’è un pozzo, c’è l’acqua, c’è l’Amore che sempre si dona e che per noi cristiani è la sorgente di tutto, è l’Eucaristia.

All’inizio dell’estate Papa Francesco ci ha donato la lettera Apostolica Desiderio Desideravi che è una meditazione stupenda sulla Liturgia e sulla formazione che riguarda tutti e che vi invito caldamente a leggere.

A proposito della sorgente nel deserto che è l’Eucaristia scrive:

A quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati, o, meglio, attratti dal desiderio ardente che Gesù ha di mangiare quella Pasqua con loro: Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5,9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia.

Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello (Ap 19,9). Per accedervi occorre solo l’abito nuziale della fede che viene dall’ascolto della sua Parola (cfr. Rm 10,17): la Chiesa lo confeziona su misura con il candore di un tessuto lavato nel Sangue dell’Agnello (cfr. Ap 7,14).

Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l’invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini.

Per questo ho detto che “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell’Agnello e vivere di Lui. (DD 4-5)

Sant’Evasio sostienici in questo cammino di fedeltà e testimonianza!

 

+ Gianni Sacchi, Vescovo